Slovak Direct - Denali

Capitò proprio una mattina tra tante: mi sveglia e vidi un whatsapp di David con una foto di una montagna: una parete enorme, solcata da questa linea che passava nel suo centro e puntava diretta alla cima.
Sotto l'immagine David mi scriveva "Sai che parete è?  E soprattutto che via è questa?"
“Certo che si!” gli risposi “ È la Slovak Direct sulla parete sud del Denali".


Mi disse: “Andiamo?”
E io senza pensarci un secondo risposi  di “si”.

Così da quel momento si accese dentro di noi un fuoco che per un anno tenne alta la motivazione per preparaci a questa grande avventura. Nel periodo di preparazione ci allenammo duramente con Twinbody, correndo e scalando sul Monte Bianco, ripetendo vie impegnative.
L’obiettivo era arrivare ad ogni allenamento sfiniti.
Molte volte le sessioni di allenamento erano due al giorno e devo dire che è stata dura.
In più, a complicare il tutto, in quell’anno avevo anche gli esami per diventare Aspirante Guida Alpina che combaciavano con la mia preparazione.



Terminato l'anno arrivò il momento di partire e dopo un lungo viaggio giungemmo in questa terra simbolo di avventure selvagge.
Prima sosta, Talkeetna, un paesino davvero piccolissimo.
Il nostro volo sul ghiacciaio decidemmo di farlo con Sheldon la famosa compagnia fondata appunto da Don Sheldon,  il pilota che portò i Ragni di Lecco nel lontano 1961.
La spedizione dei Ragni, capitanata da Riccardo Cassin, salì per prima dalla parete sud aprendo la famosa via città di Lecco o meglio conosciuta oggi come la via Cassin.
Finalmente, dopo giorni di attesa dovuti alle condizioni pessime per volare, salimmo a bordo di questo aereo che all’apparenza dava l’idea di precipitare da un momento all’altro.
Dopo circa qualche minuto di volo, vedevamo in lontananza il nostro sogno e il primo pensiero che mi venne in mente fu: “Ma quanto è enorme il Denali?”.
Atterrati sul ghiacciaio, mi guardai subito attorno e rimasi a bocca aperta, tutto era bianco, tutto era così grande.
A un centro punto venni scosso da David che mi riportò subito sull’attenti, non c’era tempo da perdere. Dovevamo metterci in marcia per percorrere più strada possibile. Tutto il materiale era sulle nostre compagne di avventure, le slitte, che dovevamo tirar fino a campo 14.000 ft., punto in cui avremmo fatto il nostro campo base.
Dopo qualche giorno riuscimmo ad arrivare con tutto il materiale al campo ma non fu assolutamente facile perché entrambi dovevamo tirare 70 kg a testa, considerando anche l’aspetto della quota in cui ci muovevamo.

Qui sistemammo la nostra piccola “casetta” che ci avrebbe riparato dal freddo e dalla neve per un po’. Intanto il tempo passava e noi iniziavamo il nostro acclimatamento.
Finalmente arrivò il giorno in cui fummo pronti per la cima, la forma era ottima e procedeva tutto liscio fino a quota 5800 quando ad un tratto iniziai a non sentire più le dita dei piedi e così, per non peggiorare la situazione, decisi di scendere.
David invece arrivò in cima.
Dopo un giorno di riposo ripartii per la cima per finire l'acclimatamento, mi sentivo in forma strepitosa ma nel salire pensavo: "Io la cima non voglio farla dalla normale, ma dalla Slovak Direct, la via per cui sono venuto fin qua.".
Così 100 metri prima dell’arrivo mi fermai e tornai a campo 14.000 ft.
La voglia di fare questa fantastica via era talmente forte che arrivai a prendere questa decisione: per me salire il Denali ormai era farlo dalla Slovak!


Proprio come era stato salire il Monte Bianco per la prima volta dal Pilone Centrale del Freney.
Dopo giorni di riposo e attesa, finalmente il nostro grande amico, Matteo Della Bordella, ci diede una super notizia. Sarebbe arrivato finalmente il bel tempo con un solo giorno in mezzo di brutto.
Non esitammo e la notte del 18 giugno partimmo decisi, con l'obiettivo ben chiaro nella nostre menti.
L'avvicinamento si presentava subito molto complesso tra seracchi e  placche a vento e capimmo che l'ambiente talvolta può esser davvero severo.
Finalmente riuscimmo ad arrivare sotto al couloir dei giapponesi dove con un traverso raggiungemmo la cresta della via città di Lecco e da lì ci calammo all' interno del canale dell' attacco originale della via stessa.
Sotto la parete, venivamo colpiti dall’imponenza di quest’ultima,  mai vista una così grande.
Ci sentimmo quasi schiacciati dell' immensità della montagna.
Montammo la tenda e ci infiliamo nei sacchi, dopo aver fatto quasi dieci ora di avvicinamento battendo traccia con neve fino alle ginocchia.
Al calar del sole partimmo per la nostra via dei sogni.
La prima giornata si concludeva con 12 ore di scalata e decidemmo di bivaccare nel crepaccio del primo seracco situato a un terzo di parete.
Luca sulla Slovak Direct
Qui fummo costretti ad aspettare una giornata a causa del brutto tempo.
Passata la piccola perturbazione, ripartimmo per affrontare la seconda parte della via, quella più impegnativa tecnicamente parlando, con tiri di misto fino all' M6+ poco proteggibile e ghiaccio verticale, insomma il nostro pane.
Terminata la parte arrivammo sotto la mitica headwall dove affrontammo il tiro in A2 che ci portò via un bel po' di tempo.
Dopo la headwall un altro tiro di misto molto tecnico ci portò al nevaio che fiancheggia il seracco nominato Big Berta.
Uno scenario non spettacolare, di più.
Dopo qualche centinaio di metri il nostro fisico iniziava a cedere e decidemmo di bivaccare montando la tenda sull'unica piccola sporgenza presente ricavata scavando con le picozze nella neve.
Il giorno seguente si ripartì con l’illusione che le difficoltà maggiori fossero finite ma invece non fu così.
Davanti a noi si presentò una sezione di misto di 2 tiri ma che ci impegnò non poco.
Dopo averla superata ci trovammo ad affrontare l’ultimo pendio dove battemmo la traccia sempre con neve alle ginocchia.
Arrivammo così alla cresta della via città di Lecco.
Dopo una breve sosta per sciogliere neve da bere e mangiare barrette e gel continuammo la nostra ascesa verso la cima.
A quota 5600 m ci fermammo per riposare, scavammo una piazzola per la tenda e nel farlo, trovai un vecchio calzino che avrei poi portato con me come ricordo di questa super montagna.
La notte passò lentamente a causa del freddo che non ci fece riposare come avremmo voluto.
Al mattino ripartimmo e la parte finale della via continuò ad essere in neve fresca, facendoci faticare fino all' ultimo metro, fino a quando a un certo punto arrivammo sulla cresta che porta alla cima.
Proprio nel punto in cui ero tornato indietro nella salita di acclimatamento.
L’emozione fu talmente forte che mi fece uscire qualche lacrima di felicità.
Posammo gli zaini e con passi molto lenti ci dirigemmo verso la cima.


David e Luca in vetta al Denali
In cima David mi disse: "Luke questa volta l abbiamo combinata grossa".
E io commosso non potei che rispondergli: "Sì, l’abbiamo combinata grossa, abbiamo ripetuto la Slovak direct sul Denali, yeeeeaaaah".

Piantobaldo - Ice Dream orobic style


Arriva un momento in cui c’è qualcuno che ti coinvolge in qualcosa, generalmente è una persona con la quale hai confidenza, un conoscente, un amico, una persona di cui ti fidi e non tanto il risultato dell’azione comune che intraprendi ma è l’azione stessa che può far diventare questa persona speciale, per te, oppure riportarla alla dimensione di partenza, ad un saluto di circostanza, un saluto educato, ad una telefonata interessata . Con le persone speciali, per te, le telefonate sono spesso a caso, per passare minuti spensierati, minuti felici spesso parlando dell’inutile, senza chiedersi nemmeno "come và" o "come stai" …..sto già molto bene, sono al telefono con te, sento la tua voce, mi interessa quello chi dici, anzi, non mi interessa, mi interessa solo che me lo stai dicendo tu.

Gli amici speciali, persone che hanno qualcosa in comune con te a prescindere, e che hanno vissuto con il tuo stesso spirito, magari esperienze di vita simili, gusti musicali, serate tra amici. Non importa che siano o meno della tua generazione, arrivano, passano un po' di anni, ed un tratto ti accorgi che sono come vorresti fossero.
Ennio mi coinvolse in quest’idea nel 2010, credo fosse autunno, passavo nel suo negozio, a caso, non per caso, ci volevo passare e ci sono passato, senza un motivo particolare. Mi mostra una foto sullo schermo del computer, una parete che conosco ma sulla quale non ho mai scalato. Mi chiede “vieni?”, io rispondo , “va bene”, lui ribatte “chiediamo anche a Tito?”, io rispondo, “va bene”.


Ricordo che non fu una conversazione prolissa, confesso che ero un po' stupito che avesse chiesto a me, avevamo arrampicato poco insieme, ma entrambi avevamo un obbiettivo complementare alla salita di questa nuova via sulla NW della Presolana e senza confessarcelo lo conoscevamo già entrambi, non servivano parole. Poi quando si abbozzano intenti di questo tipo, spesso, le vicissitudini, le condizioni, gli impegni, le persone, fanno si che a volte non si arrivi nemmeno a provare e invece….
Incastro gli impegni ed eccomi al rifugio Albani la sera. Il rifugio è chiuso, avremmo dovuto cenare e dormire in un'altra struttura qui vicino ma il gestore, nonostante la nostra prenotazione, ha deciso che stasera tiene chiuso….. Ennio ha quindi contattato Pablo, il rifugista dell'Albani che gli spiega il trucco per entrare e ci dice di fare come fossimo a casa nostra. Raggiungo Ennio e Tito la sera, mi accompagnano due amici di Colere che ci terranno compagnia fino a sera tarda.
La sveglia suona presto, io ho dormito su un tavolo, ho un po' di mal di testa, non è colpa del tavolo, maledico i due elementi di disturbo e mi incammino verso il passo dello Scagnello, sono l'ultimo e mi si spegne la frontale, è buio pesto, non vedo nulla, mi sento un idiota, forse lo sono.
Ennio e Tito mi aspettano al passo e da li cominciamo a scendere, facendo un giro in senso orario per arrivare alla base della parete dove vorremmo aprire una nuova via.
Il primo tiro è in comune con una via che Ennio aprì nel 1990, Orobic Ice.
Parto io con la frontale di Tito in testa, è ancora buio, sono i primi di marzo. C’è un sacco di neve ed Ennio mi dà indicazioni per trovare l’ancoraggio di sosta dal quale poi noi proseguiremo a destra. Ricordo un sacco di neve inconsistente e ripida, cosi ripida da sbatterci il muso, facevo mille ragionamenti per capire dove trovare neve un pochino più portante, ragionamenti che sembravano funzionare e si rivelavano allo stesso tempo inefficaci in pochi centimetri. Continuavo a muovere 'ste gambe per tirar fuori i piedi dalla neve ma nemmeno me li vedevo, ero nella neve fino alle cosce, con le gambe quasi intrappolate, il respiro affannoso e le mani gelate. Per non rotolare giù era sufficiente che tenessi un po' con gli addominali, le gambe non sarebbero mai potute venir fuori dalla neve. In queste situazioni cerco di evitare di farmi domande, se uno comincia a farsi delle domande sensate capisce che sta facendo una cosa decisamente senza senso e così finisce che molla, abbandona, invece di perseverare e agire ed è l’azione che spesse volte ci toglie dalle situazioni scomode.


Dopo un po' di minuti, non li saprei quantificare, arrivo al punto di sosta, una specie di clessidra fatta di sassi incastrati che a causa della troppa neve si trova all'altezza delle mie cosce. Non è per nulla l’ ancoraggio che desideravo mentre  nuotavo nella neve poco prima. I piedi ancora non me li vedo, sono ancora nella neve…..recupero i miei compagni dopo aver rinforzato l’ ancoraggio e vista la posizione scomoda faccio casino con le corde, anche perché i miei compari salgono veloci. Riparto e finalmente le lame delle picozze e le punte dei ramponi trovano un minimo di resistenza, si infiggono nella neve dura con grande soddisfazione, finalmente mi vedo i piedi. Il terzo tiro è un traverso verso destra, un traverso facile , nevoso, ci porta all’ imbocco del sistema di canali che vorremmo risalire. Cominciano poi delle balze di roccia, non impegnative, alternate da tratti di neve. Ricordo ancora un bel muro verticale di neve dura, in quei tratti la progressione è veloce, gli attrezzi funzionano al meglio , ti senti quasi bravo, ma sulle Orobie quelle condizioni ci sono molto raramente e quando ci sono è solo per alcuni tratti.
Infatti i tiri dopo sono un mix di rocce ripide, a tratti friabili e neve farinosa. Spesso devi stappare le strozzature o i piccoli strapiombi fessurati dalla neve. Si formano dei veri e propri tappi di neve abbastanza coesa tra sé ma non attaccata alla roccia, quindi, come uno squilibrato ti metti a picchiare, malmenare questi mucchi di neve finché non riesci a buttarli a valle e chiaramente quando si arrendono, cadono diretti nelle corde che ti legano ai tuoi compagni dandoti un bello strattone. Proteggersi su questo tipo di terreni è sempre problematico, a volte richiede tempo e tentativi. Con gli anni credo di essere diventato più veloce ed efficace nel farlo ma in quell'occasione, a volte , me la prendevo con me stesso perché avevo l'idea di metterci troppo, provavo con friend e chiodi in una fessura che si rivelava poi cieca, quindi mi spostavo di qualche metro senza successo per poi ritornare al punto di origine e decidere che il chiodo che avevo messo 5 minuti prima e non mi aveva dato la soddisfazione necessaria era diventato improvvisamente un bel chiodo, un gran bel chiodo. Ai miei compagni delle mie soste non sembrava interessare granché, forse perché hanno fiducia nelle mie capacità o semplicemente perché hanno cosi tanta voglia di ricominciare a muoversi e salire che nemmeno ci badano?
Mi accorgo che non sono granché solide dalla facilità e dalla velocità con la quale i miei compagni estraggono i chiodi che avevo messo. Quando uno dei chiodi è più tenace del solito Ennio me lo dice, quasi per suggerirmi gli standard da seguire per i prossimi che metterò.
Arriviamo alla base di un salto ripido, di rocce con del ghiaccio fine sulla destra, attacco il salto sulla sinistra, la roccia mi sembra abbastanza lavorata e riesco pure a proteggermi decentemente, sono impegnato ma tranquillo anche se abbiamo salito ormai 7 tiri di corda a volte abbastanza problematici.


Arrivo alla base di un altro salto di rocce, più alto e più ripido di tutti, con il solito strapiombino finale ma senza tappo di neve, in compenso c’è una crosta di ghiaccio che penzola. Non è tardi ma ci guardiamo in viso e decidiamo che per oggi è sufficiente. Abbiamo pochi chiodi, ne ho usati 3 per la sosta, ed i 4 o 5 che ci restano non credo bastino per riuscire a salire questo tratto e attrezzare una buona sosta. Abbiamo una serie di friend ma fino ad ora credo di averne messi 4 o 5 in tutto, non è una roccia facile da proteggere. Le valanghe e le piogge la levigano al contrario rispetto al nostro senso di marcia e le fessure sono sempre svase o irregolari, in compenso a volte, per magia, compaiono delle clessidre decenti e dei buchi.
Scendiamo in doppia e riuscendo ad attrezzare le calate che ci servono.  Arriviamo alla base della parete e risaliamo fino allo Scagnello, chiaramente l’intento è di ritornare per finire la salita.


Torniamo il 10 marzo, Pablo ci lascia ancora usare il rifugio, è un gesto veramente speciale.
Saliamo però tutti e tre assieme, nel pomeriggio e senza elementi di disturbo. Facciamo una breve ricognizione per vedere la parete e ci fermiamo al sole, spensierati a fare foto alla parete e a noi. Giochiamo un pochino camminando sulla neve, trovando la maniera di non sprofondare, almeno provandoci. Cerchiamo di caricare i piedi in maniera graduale sperando quasi che la pianta dello scarpone acquisisca larghezza dandoci una portanza sovrannaturale ma appena proviamo a distenderci sulle gambe…… sprofondiamo.
La notte passa tranquilla, la sveglia è inopportuna come sempre, ci prepariamo e usciamo ancora al buio.
Stavolta la frontale funziona e non sono l’ultimo.
Ripercorriamo tutti i tiri come l'altra volta, solo il settimo mi viene diverso. C'è un labbro di neve che copre le rocce che avevo utilizzato la volta prima. Decido di attaccare le rocce in centro ed arrivare alla colata di ghiaccio. La neve sotto al salto è inconsistente, appena incastro le lame nelle fessure l'esile gradino nevoso dove poggiano i miei piedi  si sfalda. Resto appeso alle picozze cercando di ritirarmi in piedi strisciando con le ginocchia sulla neve che continua a cedere ed io continuo a muoverle per mantenere un minimo di equilibrio finché, stanco non mi fermo.
I miei compagni ridono, anche io sorrido ma mi scappa qualche imprecazione. Riesco a partire, deciso ed efficace, ormai non posso ripensarci, devo solo salire, quindi spengo considerazioni e domande, arrivo alla colata esile di ghiaccio e continuo fino all'ancoraggio di sosta, il primo che avevamo allestito per la discesa e quindi l'ultimo che oggi troverò già fatto.
Da qui in poi, ricomincia il totochiodo, quel gioco snervante che consiste di trovare dei posti decenti dove metterci dei chiodi almeno decenti.


Tito si offre di andare avanti, Tito è molto bravo e sale questo muro difficile in arrampicata mista, un po' in libera ed un un po' in artificiale. Il tiro è molto difficile, fino ad ora tutti i tiri saliti in precedenza eravamo riusciti a salirli in arrampicata libera, senza mai appenderci alle protezioni. Tito è quasi alla fine del tratto più impegnativo ma chiede di essere calato. Riparto Io, scalo in libera ma da secondo di cordata fino all'ultima protezione che Tito ha utilizzato. Il tratto è molto aereo, la roccia non è granché e questa specie di fessura molto aperta e svasata mi costringe a stare in una posizione che non riuscirò a mantenere a lungo. Sono in una spaccata molto aperta e non ce la faccio più, mi appendo. Mi rode appendermi, non mi è mai piaciuto.


Da appeso però riesco a ripartire con un minimo di lucidità in più e riesco a piantare un buon chiodo universale in una spaccatura, mi appendo anche a questo (tanto ormai…..) e infilo le picozze nei buchi della crosta di neve che penzola, un metro sopra il salto termina in un canale di neve, due movimenti e finalmente riscopro quella magnifica sensazione del piantare le picozze nella neve dura. Dopo qualche metro trovo anche una boccia di ghiaccio, sono ormai sul facile ma ci metto una vite corta, più per il fatto che ne ho portate due e non le ho ancora usate che per il resto. Recupero i miei compagni, siamo tutti molto felici e consapevoli del fatto che le difficoltà sono finite.
Il canale adesso è decisamente nevoso, i giochi fatti il giorno prima per galleggiare non sono efficaci ma io,  adesso, sono dietro e ho vita facile nelle peste degli altri. L’ultimo tratto si impenna ancora, siamo 2 tiri sotto alla cresta finale, davanti ora c’è Ennio che cerca il passaggio più agevole per raggiungere la cornice sommitale e superarla.


Il sole sul viso ci fa sorridere, ci socchiude gli occhi, mi volto chiudendo le palpebre cercando il calore sul viso, sul petto, non è tanto tempo che siamo in ombra ma è piacevole e soprattutto segna il successo della nostra idea, del nostro intento comune.
E' come se fosse stato lì, sulla cresta ad aspettarci, a guardare giù dicendo "daiii, mah?? arrivi??".
Roby è scomparso un anno e mezzo prima, il ricordo ed il dolore sono  ancora vivi e forti.
Noi siamo lì al sole, non abbiamo parole, non abbiamo discorsi da fare, siamo lì per noi, siamo lì perché ci manca e sappiamo che lì lo possiamo ritrovare, nella neve, nell'aria, nel calcare delle rocce e ci accompagnerà sempre, durante tutte le giornate che passeremo con la voglia di salire, di cercare e guardare più in là, per vedere insieme cosa c'è oltre senza dimenticare di voltarci e ricordare quello che siamo stati e da dove abbiamo iniziato a salire.

Yuri Parimbelli - Marzo 2011

Verdon-Liberi di sognare



L’invito al viaggio è una suggestione, un tentativo di lasciare una scheggia nell'immaginario di un
altro. Sperare che un’immagine che tanto mi ha colpito sia abbastanza potente da essere “vista”
da un altro, almeno la luce, almeno il profumo, almeno l’emozione.

Quando faccio la Guida è così semplice vedere tutto questo nel concreto. Raccontare una via a
chi si legherà con me. Raccontargliela con la voce, con gli occhi. Vedere che il meccanismo del sogno si mette in moto. E poi si parte. Ci si lega e i profili immaginati ridipingono quelli reali.
Che mestiere stupendo quello della Guida.
Ogni volta che riesco a far si che vi prepariate a una via con me con un’immagine già impressa negli occhi e nelle vostre reverie sono intimamente entusiasta.
L’invito al viaggio è l’anima del mio mestiere.  E’ quella linea sottile e a volte per alcuni incerta, fra il portare qualcuno e accompagnare qualcuno.
Forse, la chiave per ritrovarci in questi giorni da trascorrere lontani dalla libertà degli spazi aperti sta proprio qui. Se accompagnarvi per me è passione e prima di tutto condivisione di un sogno e di un’emozione, allora posso provare a continuare a essere una Guida anche adesso. Vi posso invitare al viaggio, perché abbiamo tutti una capacità che non conosce reclusioni: immaginare.
Allora posso ancora provare a lasciarvi quella scheggia che vi porti lontano, che vi faccia pensare, che vi incuriosisca, che vi faccia studiare, che vi esorti a leggere.
Che vi faccia viaggiare.

Ho scelto il Verdon, come già sapete, e raccontarlo non è cosa semplice…



Il Verdon per me è un tutto sensoriale di incredibile potenza e potrei descrivervelo ancora senza stancarmi, ma io in Verdon vado principalmente a scalare, per cui della scalata voglio parlarvi. Scalare qui è rivivere una storia. Una storia incredibilmente contemporanea. Una storia che parla di linee, di movimenti e di scelta di superfici. Le rocce delle Gorges sono documento della storia estetica della scalata.
Considerando le diverse epoche e di conseguenza i diversi approcci alla scalata, potremmo analizzarne l’evoluzione attraverso gli stili differenti che la hanno caratterizzato su queste straordinarie pareti e che ne scandiscono magistralmente le diverse epoche.

Due stili e due periodi risuonano dentro i miei ricordi con intensità.

Il primo è lo stile delle linee evidenti, di una scalata che è un vorticoso corpo a corpo. Il 1974 è l’inizio del mito e le fessure e gli off-width sono la chiave di lettura di queste pareti.
Le vie che nascono in questo fortunato anno continuano a far sognare e tremare tutt'oggi gli scalatori. Quando scrivo questo sto pensando a Il trittico del terrore, tre vie che sono capolavori di arditezza e ingaggio.

Bec de Lièvre nel settore dell’ Imbut, una via con un tiro off-width che nonostante l’evoluzione della scalata non è mai stato sgradato.

Les Barjots, capolavoro della banda di Gorgeon, che parte dal Jardin des Ecureuils.

Ha procurato spaventi a più di uno scalatore, famoso il suo primo tiro off-width gradato VI in origine. Oggi riconsiderato 6b... e ultimo ma non ultimo.

L’Estamporanée, per tutti L’Estampò. Un vero e proprio monumento delle Gorges duecento metri di sano terrore per intere generazioni.
Oggi il suo fascino rimane immutato, nonostante tutti gli ausili tecnologici di cui disponiamo. La tecnologia ci ha avvantaggiati ma non per questo affrontiamo l’Estampò a cuor leggero.
 


Il secondo è una Rivoluzione.
È un cambio totale di modalità espressiva. È il cambio di superficie. È lo svincolarsi della scalata dalle line obbligate. E la via che ho scelto è l’emblema e il monumento consacrato delle Gorges.
È un viaggio all'inseguimento della bellezza sulla parete più verticale e alta delle gole: l’Escalès.

È Pichenibule, il capolavoro di Pschitt, al secolo Jacques Perrier. Questo itinerario è mito e
leggenda per me per via del fatto che abbandona sistemi di fessure per avventurarsi sulle lisce e
compatte placche di urgoniano e perché sale la porzione di parete più verticale e dove la
percezione del vuoto è a dir poco siderale.

Pichenibule è come una musica di grande invenzione e la sua fama si alimenta quando risuona
sotto le mani di grandi interpreti. I personaggi che si alternano ai suoi appigli sono artisti della
verticale e il loro passaggio lascia un segno su questo capolavoro.
Primi tra tutti gli inglesi Livesey e Fawccet che la salgono in arrampicata libera (ad esclusione del mitico bombè) nell'autunno del ’77. E poi il Mago (Manolo), la cui leggenda narra che per un soffio mancò la salita a vista, decollando letteralmente con la sosta davanti al viso per una planata di una quarantina di metri. Fino alla consacrazione assoluta quando un giovane ed insospettabile Patrick Berhault, allora ventenne, nella primavera del 1980 riuscì senza colpo ferire nella libera del mitico bombè di Pichenibule.







Di vie potremmo farne un infinito elenco ma diventerebbe sterile e privo di senso. Dirò semplicemente che le vie da non mancare sono innumerevoli e non basta certo una visita al tempio. A voi scoprire quali, attraverso i libri, i miti e le leggende. A voi seguire quel sottile filo di Arianna che ci conduce di via in via, di parete in parete.

Vi lascio con una citazione dal libro di Vaucher "Quei pazzi del Verdon" un invito alla lettura in
questi giorni di “clausura”, un invito al sogno e alla realizzazione dei sogni.



“(...)mi sarebbe piaciuto che parlassi dell’ atmosfera del Verdon come l’abbiamo vissuta noi, di
più e fin dall’inizio. Se puoi vai oltre il contesto storico e presenta i luoghi, gli odori, i nostri bivacchi, la vegetazione, il vecchio ariete solitario; parla del colore, dei colori della roccia, delle soste negli alberi, del verde speciale del Verdon, del caldo di certi giorni, (con il rumore dell’acqua nelle orecchie e la polvere in bocca!) delle spedizioni precoci in primavera, quando l’oscurità si
distende sul fondo delle gole, dei tunnel superati così spesso, e di noi: un po’ lazzaroni, un po’
alla ricerca dell’impossibile, della fifa e della gioia di arrivare sul pianoro prima di sera e tutto
il resto!

Prima di intraprendere il pellegrinaggio nel Tempio vi invito a leggere:

"Quei pazzi del Verdon"  di Bernard Vaucher edito da versante sud.



"Patrick Edlinger - Libero nell' aria" di Jean-michel Asselin e Patrick Edlinger edito nella versione italiana da AlpineStudio.


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