...omaggio a un uomo che con il suo Alpinismo irripetibile, mi ha fatto e mi fa sognare.



Fermiamoci. Facciamo silenzio. Buttiamo ciò che inquina la mente e il cuore. Non possiamo tornare puri? Allora guardiamo all'ultimo “puro folle” e ascoltiamo le parole di Gian Piero Motti: «Un'impresa fantastica, degna della grande tradizione non solo dell'alpinismo ma di tutta l'Avventura umana nel senso più ampio». Renato Casarotto, dal 1° al 15 febbraio 1982, non pensava ad un “concatenamento”, come si dice oggi. Sotto la sua azione stava ben altro, un pensiero estraneo al fatto sportivo. Renato ha raggiunto quota 4810 – un numero ma anche un simbolo, un mito, un libro di storie – per la via più ardua, da solo, in inverno. Si è mosso sulla roccia e sul ghiaccio, si è mosso nel presente e nel passato ed ha esaurito il futuro in due settimane: Ratti-Vitali sulla parete ovest dell'Aiguille Noire, discesa per il versante nord, Gervasutti-Boccalatte sul Pic Gugliermina e poi Bonington sul Pilone Centrale (tutte salite a lui sconosciute, vissute per la prima volta in quella dimensione che, nel silenzio siderale del selvaggio Frêney, le ha fuse in un'esperienza senza eguali). Le parole di Renato valgono più delle nostre: «Ho raggiunto la cima del Bianco quasi senza rendermene conto, nella nebbia fittissima. Erano le 12 e 10 e l'altimetro segnava 5000 metri. Da ovest stava arrivando il finimondo: ho scavato una buca nella neve e ho aspettato. Secondo la mia logica non c'era altro da fare. Ho bivaccato ed è stata una delle notti più dure di tutta la mia carriera alpinistica. Sul Bianco, per la particolare posizione del massiccio, quando arrivano le grosse perturbazioni da ovest sembra di essere nell'occhio del ciclone» (Rivista della montagna, n.51). Qualcuno, dopo, si scandalizzò, urlò “salita fuori moda”, guardò di traverso i quindici giorni di solitudine (troppi, si sentiva dire…) e non comprese che ciò che stava davanti agli occhi di tutti era un unicum irripetibile, un'opera d'arte che non poteva essere eguagliata, una linea continua dalla base alla vetta finita nel libro delle cose belle: quello che, purtroppo, sembra far paura. E allora non lo si apre mai, lo si conserva da qualche parte e, alla fine, ci si dimentica di ciò che contiene. Tanto che, quando a Stéphane Benoist, Patrick Pessi e Patrice Glairon-Rappaz, dal 19 al 28 febbraio 2003, riuscì la Super integrale di Peutérey, ci fu chi la definì «senza alcun dubbio l'itinerario più difficile mai percorso per raggiungere il tetto d'Europa», dimenticando la gigantesca scalata del 1982. Lo abbiamo già scritto, sì, e lo ripetiamo. Ma non per sminuire l'impresa dei tre fuoriclasse francesi (davvero straordinari, tanto sulle Alpi quanto in Himalaya) ma per sottolineare la portata dell'azione di Casarotto, inserita in un quadro simbolico che, andando al di là dell'alpinismo, coinvolge l'uomo nella sua integrità. È lo stesso Renato a spiegarcelo: «Il mio zaino non è solo carico di materiali e di viveri: dentro vi sono la mia educazione, i miei affetti, i miei ricordi, il mio carattere, la mia solitudine. In montagna non porto il meglio di me stesso: porto tutto me stesso, nel bene e nel male». E quando Roberto Mantovani ed Enrico Camanni andarono ad intervistarlo, pochi giorni dopo il suo allucinante viaggio, trovarono «un Renato più fanciullo e visionario che mai, ancora proiettato con tutto il suo essere in quell'impresa tanto più grande di lui. Aveva la strana serenità dei reduci appena sbarcati da un altro mondo» (Enrico Camanni, Alp, n.138).

Courtesy Carlo Caccia

Una delle più belle ed emozionanti serate a cui abbia avuto la fortuna di partecipare


http://vimeo.com/58834812